La Radura
In Italia, a partire dal Rinascimento e fino alla fine del Seicento, gli architetti estendono alla natura la visione di uno spazio razionale e geometrico: i giardini, detti all'italiana, sono ordinate scacchiere disegnate secondo le stesse regole prospettiche degli edifici. Le siepi sempreverdi di mortella o di bosso, ridotte a puri volumi, non mantengono che un tenue ricordo dell'albero o del cespuglio da cui discendono; i dislivelli si trasformano in terrazze collegate da rampe di scale; le fontane, all'incrocio degli assi prospettici, attenuano, attraverso statue e giochi d'acqua, l'austerità dell'insieme; i muri isolano il giardino dalla natura che lo circonda.
Nei primi decenni del Settecento, in Inghilterra, viene messo in discussione questo formalismo geometrico caratterizzato dall'idea del dominio dell'uomo sulla Natura, a favore di un nuovo stile paesaggistico. Per la prima volta, il rapporto emotivo tra l'uomo e la natura esalta un nuovo giardino, "più espressione del sentimento che pittura", scrive Beethoven nella Sesta Sinfonia, la "Pastorale": una rivoluzione nell'arte dei giardini, che coinvolge giardinieri, ma anche architetti, filosofi, poeti per narrare la bellezza di una natura in cui la mano dell'uomo c'è, ma non si vede.
Nasce così il giardino all'inglese o parco romantico.
Il Parco del Castello di Miradolo, negli anni Venti dell'Ottocento, si conforma a questo gusto grazie a "Babet", Maria Elisabetta Ferrero della Marmora, sposa del marchese Maurizio Massel, donna di grande personalità e intraprendenza e amante della botanica.
Negli anni di "Babet", e con l'intervento di Xavier Kurten, l'impianto settecentesco del giardino, che prevedeva, nella zona dove ci troviamo, una peschiera, un giardino di delizie e un frutteto, viene stravolto. La peschiera si trasforma in un piccolo lago e il Parco si amplia e si sviluppa intorno al grande prato centrale, opposto al Palazzo.
Ancora oggi, la rivoluzione del giardino di "Babet" ci appare come un coraggioso invito a guardare i cambiamenti cui assistiamo, non come semplici osservatori ma come parte di essi.

In Italia, a partire dal Rinascimento e fino alla fine del Seicento, gli architetti estendono alla natura la visione di uno spazio razionale e geometrico: i giardini, detti all’italiana, sono ordinate scacchiere disegnate secondo le stesse regole prospettiche degli edifici. Le siepi sempreverdi di mortella o di bosso, ridotte a puri volumi, non mantengono che un tenue ricordo dell’albero o del cespuglio da cui discendono; i dislivelli si trasformano in terrazze collegate da rampe di scale; le fontane, all’incrocio degli assi prospettici, attenuano, attraverso statue e giochi d’acqua, l’austerità dell’insieme; i muri isolano il giardino dalla natura che lo circonda.
Nei primi decenni del Settecento, in Inghilterra, viene messo in discussione questo formalismo geometrico caratterizzato dall’idea del dominio dell’uomo sulla Natura, a favore di un nuovo stile paesaggistico. Per la prima volta, il rapporto emotivo tra l’uomo e la natura esalta un nuovo giardino, “più espressione del sentimento che pittura”, scrive Beethoven nella Sesta Sinfonia, la “Pastorale”: una rivoluzione nell’arte dei giardini, che coinvolge giardinieri, ma anche architetti, filosofi, poeti per narrare la bellezza di una natura in cui la mano dell’uomo c’è, ma non si vede.
Nasce così il giardino all’inglese o parco romantico.
Il Parco del Castello di Miradolo, negli anni Venti dell’Ottocento, si conforma a questo gusto grazie a “Babet”, Maria Elisabetta Ferrero della Marmora, sposa del marchese Maurizio Massel, donna di grande personalità e intraprendenza e amante della botanica.
Negli anni di “Babet”, e con l’intervento di Xavier Kurten, l’impianto settecentesco del giardino, che prevedeva, nella zona dove ci troviamo, una peschiera, un giardino di delizie e un frutteto, viene stravolto. La peschiera si trasforma in un piccolo lago e il Parco si amplia e si sviluppa intorno al grande prato centrale, opposto al Palazzo.
Ancora oggi, la rivoluzione del giardino di “Babet” ci appare come un coraggioso invito a guardare i cambiamenti cui assistiamo, non come semplici osservatori ma come parte di essi.