Lungo l’Antico Viale

Il Faggio ‘Asplenifolia’

Questo esemplare di faggio è un Fagus sylvatica aspleniifolia: è l'albero a cui sono più legata.

Con la corteccia grigio argentea che ricorda il manto dell’elefante e con il portamento morbido e ricadente, è una delle varietà ornamentali più rare da ritrovare nei giardini.

Il suo nome deriva dalla forma delle foglie, che si contraddistinguono per una lobatura marcatamente sinuata, che ricorda quella della felce, denominata Asplenium.

La chioma, formata da strati di foglie sovrapposti, crea un'ombra fitta che scoraggia la crescita di specie poco amanti del buio e che rende le foreste di faggi, prive di cespugli vicini al suolo, irrealmente silenziose. I lunghi rami mantengono fresco il terreno anche nei mesi più caldi. Le foglie, che si attardano fino a inverno inoltrato, conservano una luce inconfondibile, sia quando sono verdi, sia quando sono rosse. In primavera, quando sugli altri alberi sono già visibili le nuove foglie, il faggio è ancora addormentato: attende, per risvegliarsi, che la luce ritorni per almeno 13 ore al giorno.

Il faggio è considerato la "madre del bosco" poiché le foglie, accumulate di anno in anno sotto la chioma, servono da generoso sostentamento e pacciamatura naturale: chiudono il ciclo della natura, restituendo al terreno le sostanze nutritive che l’albero ha consumato durante il periodo di vegetazione, dalla primavera fino all’autunno.

Questo esemplare ha patito il rialzo delle temperature delle ultime estati e la violenza del sole gli ha causato una vera e propria scottatura, che lo ha portato a indebolirsi. La parte della chioma più esposta ai raggi del sole è seccata lentamente finché la pianta stessa ha lasciato cadere a terra i rami morti (inerti?), ormai inutili per la fotosintesi e vulnerabili all'azione di patogeni potenzialmente pericolosi.

Questo albero, anziano e malato, viene costantemente monitorato e curato: nel terreno, speciali concimazioni servono come ricostituente naturale affinché si possa rafforzare per affrontare avversità, come la presenza di funghi o la siccità. Gli alberi non possono spostarsi, e cercano la forza per adattarsi al mutare delle condizioni.

Dedichiamo a questo albero le parole di Hermann Hesse che, ne "Il canto degli alberi", racconta così la caparbietà del faggio: "Mi ha sempre rallegrato la tenacia con cui il mio piccolo faggio tiene strette le sue foglie. Quando tutto è spoglio da un pezzo, lui indossa ancora il suo manto appassito (…). Le foglie rinsecchite, dapprima d'un colore bruno cupo, diventano sempre più chiare, più sottili e setose, ma l'albero non le cede (…). Poi, in primavera, si trasforma, perde il vecchio manto e al suo posto mette i nuovi, teneri germogli…".

Questo esemplare di faggio è un Fagus sylvatica aspleniifolia: è l’albero a cui sono più legata.

Con la corteccia grigio argentea che ricorda il manto dell’elefante e con il portamento morbido e ricadente, è una delle varietà ornamentali più rare da ritrovare nei giardini.

Il suo nome deriva dalla forma delle foglie, che si contraddistinguono per una lobatura marcatamente sinuata, che ricorda quella della felce, denominata Asplenium.

La chioma, formata da strati di foglie sovrapposti, crea un’ombra fitta che scoraggia la crescita di specie poco amanti del buio e che rende le foreste di faggi, prive di cespugli vicini al suolo, irrealmente silenziose. I lunghi rami mantengono fresco il terreno anche nei mesi più caldi. Le foglie, che si attardano fino a inverno inoltrato, conservano una luce inconfondibile, sia quando sono verdi, sia quando sono rosse. In primavera, quando sugli altri alberi sono già visibili le nuove foglie, il faggio è ancora addormentato: attende, per risvegliarsi, che la luce ritorni per almeno 13 ore al giorno.

Il faggio è considerato la “madre del bosco” poiché le foglie, accumulate di anno in anno sotto la chioma, servono da generoso sostentamento e pacciamatura naturale: chiudono il ciclo della natura, restituendo al terreno le sostanze nutritive che l’albero ha consumato durante il periodo di vegetazione, dalla primavera fino all’autunno.

Questo esemplare ha patito il rialzo delle temperature delle ultime estati e la violenza del sole gli ha causato una vera e propria scottatura, che lo ha portato a indebolirsi. La parte della chioma più esposta ai raggi del sole è seccata lentamente finché la pianta stessa ha lasciato cadere a terra i rami morti (inerti?), ormai inutili per la fotosintesi e vulnerabili all’azione di patogeni potenzialmente pericolosi.

Questo albero, anziano e malato, viene costantemente monitorato e curato: nel terreno, speciali concimazioni servono come ricostituente naturale affinché si possa rafforzare per affrontare avversità, come la presenza di funghi o la siccità. Gli alberi non possono spostarsi, e cercano la forza per adattarsi al mutare delle condizioni.

Dedichiamo a questo albero le parole di Hermann Hesse che, ne “Il canto degli alberi”, racconta così la caparbietà del faggio: “Mi ha sempre rallegrato la tenacia con cui il mio piccolo faggio tiene strette le sue foglie. Quando tutto è spoglio da un pezzo, lui indossa ancora il suo manto appassito (…). Le foglie rinsecchite, dapprima d’un colore bruno cupo, diventano sempre più chiare, più sottili e setose, ma l’albero non le cede (…). Poi, in primavera, si trasforma, perde il vecchio manto e al suo posto mette i nuovi, teneri germogli…”.